La sera del 12 aprile 1945

Il racconto dell’argentano Giovanni Fiorini superstite e testimone diretto della sorte toccata alla città di Argenta dopo l’offensiva degli ultimi giorni di guerra lanciata sul Santerno.

Era la sera del 12 aprile 1945, giunsi a casa dopo la fuga dalla Zona del Santerno, eravamo in 25 tra giovani e vecchi, fra i quali: Manica Giuliano, Brunazzi, Taddia Ondino, Fornasari Tonino; tutto il gruppo si fermò a Campotto, ma io raggiunsi casa mia in Argenta.

Sopraggiunse l’ondata delle “Fortezze volanti” che illuminarono a giorno Argenta e la resero un cumulo di rovine; la nostra casa fu semidistrutta, immediatamente mi portai in mezzo alle macerie sino alla Via Garibaldi, dove nel palazzo detto “Americano” si erano rifugiati mia zia, mia nonna, la famiglia fabbri e quant’altri. Il palazzo era un cumulo di rovine.

Tornati a casa per prepararci a sfollare, sentii chiamare “aiuto!!”, mio padre ed io ci rendemmo conto che diverse famiglie erano semisepolte dai resti della casa del signor Marino Bacci, nostro confinante; la richiesta d’aiuto veniva da Renato Giovanni Biavati, che aveva sotto le macerie la madre Tebaldi Angelina, il fratello Eligio di 13 anni e altri.

Con mio padre ci armammo di palanchini, piccone e mazza e ci mettemmo all’opera, composti alla meglio i morti: due bambine e la loro madre, figlie e moglie di Roverati Guido allora prigioniero degli alleati, ed altre persone sconosciute.

La liberazione dei corpi dalle macerie, esigeva forza che purtroppo mancava, ma per fortuna fu sostituita da alcuni soldati tedeschi che sollevato il piano della scala se ne andarono subito dopo. Era circa l’una di notte. La prima persona che liberammo dalle macerie fu Crispini Galeazzi ex mugnaio poi tabaccaio; era stretto a sua moglie Fausta, mi fu caricato sulle spalle e mentre mio padre con Biavati continuarono l’opera di soccorso, attraversai le macerie e portai Galeazzi dentro casa mia; al ritorno sua moglie fausta era morta.

La seconda persona liberata fu Tebaldi Angelina, che aveva sotto di se suo figlio Eligio, sentiva che era ancora vivo; la portai in casa mia seguito dal fratello del ragazzo che purtroppo spirò dopo qualche minuto; si salvarono soltanto due persone, gli altri erano morti durante il crollo.

Decidemmo di sfollare mentre faceva giorno, per strada ci trovammo con altri profughi e ci fermammo oltre il fiume Reno in una casa colonica, chiamata “Fondo Cucco”, dove arrivarono i tedeschi che s’impossessarono di una casa, che fu dichiarata Ospedale da Campo.

Bisognava issare la bandiera della croce rossa ed io mi offrii volontario.
Mettemmo insieme dei pezzi di scala, poi con la bandiera e mio padre che teneva ferma la scala arrivai al tetto.
Stavo per fissare la bandiera ai coppi quando mi volsi verso Molinella e vidi che stavano arrivando due caccia alleati a bassa quota; mi sentii perduto, vidi la mi fine; ma con ancora un attimo di spirito, mi sollevai in piedi sul tetto con la bandiera della croce rossa; gli aerei mi girarono attorno due volte, li accompagnai senza inciampare e con il solo aiuto del Signore, che in quei momenti mi ha sempre assistito, fui salvo.
I due aerei se ne andarono, stesi e assicurai la bandiera e tornai a terra fra le strette di mano della gente ed anche del capitano tedesco.

Eravamo circa in una cinquantina di persone e siccome a casa nostra avevamo della farina decisi di andarne a prendere.
Mio padre non mi lasciò andare da solo, e con due biciclette senza gomme tornammo ad Argenta nella nostra casa, dividemmo in due sacchi la farina ed a piedi riprendemmo la strada del ritorno.

Erano circa le ore 16.00, sul paese regnava il terrore, fischi laceranti poi un nuovo bombardamento sulla zona est di Argenta.
Giunti di fronte al cantiere Saiarino, saltò in aria, era stato minato, noi fummo sbalzati a terra con le nostre biciclette e quando i detriti finirono di cadere riprendemmo il nostro cammino, mancava ancora 1 Km.

Quando arrivammo, trafelati, abbiamo capito dal pianto di commozione che molti non seppero trattenere che ci avevano creduti morti.
Le donne con a capo la signora Vanda moglie di Enzo Fabbri, si dedicarono subito all’impasto della farina, fecero il pane, poi Vanda ed io sotto un infernale fuoco d’artiglieria preparammo il forno. Provvedemmo alla provvista del pane per quella sera stessa e qualche giorno avanti.

Giovanni Fiorini